7 ottobre 2022
ore 10:51
di Simone Fant
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 Per tutti

Sin dalla fine degli anni '80, le lobby dell'industria fossile e delle compagnie automobilistiche si sono unite per iniziare campagne di disinformazione e propaganda da miliardi di dollari, con l'obbiettivo di screditare la scienza, confondere il pubblico e minare le politiche climatiche. Dopo aver abbandonato la non più percorribile tattica del semplice negazionismo, per continuare a fare profitto - a discapito del pianeta e dichi ci vive- la strategia di comunicazione di queste multinazionali si è adattata nel tempo, sbarcando nelle piattaforme social più popolari e seguite. A dimostrarlo è il nuovo studio Three shades of green (washing) dell'Università di Harvard e dell'Algorithmic Transparency Institute che ha tracciato le attività sui social media dei più grandi marchi automobilistici, compagnie aeree, petrolifere e del gas in Europa. Commissionata da Greenpeace Paesi Bassi, l'indagine ha rilevato nei post pratiche di greenwashing e claim ingannevoli che mirano a distrarre l'attenzione del pubblico dalla crisi climatica.


Analizzando più di 2.300 post delle principali compagnie europee del settore fossile su Twitter, Instagram, Facebook, TikTok e YouTube, lo studio mostra come solo pochissimi contenuti facciano esplicito riferimento alla crisi climatica, mentre due terzi dei post analizzati (il 67%) è stato classificato come greenwashing dai ricercatori di Harvard. Un post su cinque utilizza temi come lo sport, la moda o cause sociali di varia natura per distogliere l'attenzione del pubblico dalle responsabilità climatiche delle aziende. 

Il comparto automotive è il più attivo nella comunicazione sui social, ma appena un annuncio su cinque pubblicizza davvero un prodotto, tutti gli altri servono solo a verniciare di verde il brand aziendale. I risultati mostrano inoltre che, mentre l'Europa stava vivendo l'estate più calda mai registrata, le aziende fossili hanno continuato i sciorinare loro investimenti green, senza menzionare i gravi effetti della crisi climatica. La novità è che i post sui vari canali social non si limitano a mostrare immagini della natura oppure soluzione ecologiche, le tecniche di greenwashing più recenti combinano immagini di donne, bambini, persone non bianche e non binarie con pubblicità sull'innovazione green che rappresenta una narrativa tecno-ottimista fuorviante.

Geoffrey Supran, ricercatore e principale autore dello studio ha dichiarato che i social media sono la nuova frontiera dell'inganno e dei tentativi di ritardare gli interventi contro la crisi climatica. "I nostri risultati mostrano che, mentre l'Europa stava vivendo l'estate più calda mai registrata, alcune delle aziende maggiormente responsabili del riscaldamento globale si sono ben guardate dal parlare di crisi climatica - ha spiegato Supran - e hanno invece sfruttato i social media per posizionarsi strategicamente come marchi sostenibili, innovativi e attenti alle cause sociali" . Nel report sono menzionate anche diverse aziende italiane come ENI e alcuni marchi automobilistici del gruppo Stellantis. 

Tuttavia ci sono già crescenti sforzi per ritenere - dal punto di vista legale - responsabili le aziende fossili di campagne di marketing ingannevoli. Negli Stati Uniti per esempio ci sono dozzine di cause intentate dalle città, contee e Stati che accusano i produttori di combustibili fossili e le loro associazioni di fare disinformazione climatica e greenwashing. Nel 2021 la House Committee on Oversight and Reform ha richiesto documenti e testimonianze ad alcune compagnie per un'indagine in corso sullo loro "sforzo coordinato nel diffondere disinformazione climatica.


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